“I governi si muoveranno in modo deciso solo quando capiranno che c’è una grande aspettativa nei loro confronti e quando dovranno rendere conto davvero delle loro iniziative”. Lo ha detto ai promotori della nostra campagna Oliver De Schutter, fino allo scorso anno relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo e fra gli esperti che maggiormente hanno portato alla luce la speculazione finanziaria sui beni alimentari. Riproponiamo qui la versione integrale dell’intervista che gli avevamo fatto e che è contenuta nel volume “Lo speculatore inconsapevole” edito da Altreconomia.

Monsieur De Schutter, partiamo dall’abc. Cos’è la speculazione?
La speculazione finanziaria consiste nell’anticipare la salita o la discesa dei prezzi attraverso investimenti e opzioni commerciali come lo scambio e la compravendita di futures e derivati. I futures sono contratti finanziari con i quali si stabilisce “oggi” a quale prezzo comprare “domani” un certo bene, come il grano o il riso. I mercati sui quali questi prodotti finanziari sono scambiati hanno una funzione utile finché permettono ai commercianti di proteggere sé stessi dai rischi legati alla volatilità dei prezzi e di sapere su quale prezzo base effettuare le transazioni. Ma da una decina d’anni a questa parte questi mercati hanno cominciato a vivere di una vita propria, mettendo in secondo piano il mercato reale. Molti dei contratti futures sono infatti rescissi prima della scadenza, senza scambio merci, si tratta quindi delle vere e proprie scommesse fatte da chi non è minimamente interessato al prodotto in questione, ma che ha il solo obiettivo di ottenere profitto a breve termine.

E la speculazione sui beni alimentari?
Ha conosciuto una vera e propria esplosione, seguendo una dinamica molto simile al gioco d’azzardo. Quando gli operatori privati o istituzionali vedono che un gran numero di contratti futures sono scambiati e che altri attori finanziari stanno scommettendo sugli aumenti dei prezzi dei beni alimentari, tendono al panico. Così ritardano le vendite, stoccano il cibo, perché credono di essere di fronte a una scarsità. Se tutti i venditori trattengono i loro stock e tutti i compratori cercano di crearsene, si crea una scarsità artificiale: c’è abbastanza cibo, ma ce n’è troppo poco sui mercati finanziari.

Cosa succede a questo punto?
I prezzi del mais, del grano o del riso impennano, e questo può essere completamente slegato dal fatto che ci sia o meno disponibilità di questi determinati beni. Può essere solo frutto di una speculazione “virtuale”, ma di fatto tutto questo influenza le reazioni dei commercianti e dei governi sui mercati “fisici”.
E quando la bolla finisce?
Dopo alcuni mesi la legge della domanda e dell’offerta legata alla disponibilità reale dei prodotti torna a prevalere, la bolla esplode, il panico finisce. Ma nel frattempo i Paesi poveri, soprattutto quelli che dipendono per la propria sicurezza alimentare dall’importazione di cibo, sono andati incontro a enormi problemi e molte famiglie sono entrate nel circolo vizioso della povertà perché non sono più riuscite a soddisfare i propri bisogni alimentari.

Che conseguenze ha la speculazione sull’andamento dei prezzi dei prodotti alimentari?
Gli esperti la chiamano “volatilità”, i prezzi fluttuano impennandosi improvvisamente, si creano bolle speculative che si formano e che poi esplodono. Questo fenomeno ha conseguenze negative in particolare sui piccoli produttori e sui Paesi poveri che sono costretti a importare cibo. È necessario affrontare questo fenomeno per assicurare che i mercati finanziari funzionino in modo più trasparente e che rispettino alcune regole. Al momento per esempio non c’è nessun controllo sulle transazioni cosiddette over-the counter, operazioni di compravendita di titoli che non figurano nei listini di borsa ma che rappresentano l’80 per cento dell’attività.

Cosa si sta facendo per porre rimedio a questa situazione?
Gli Stati Uniti dopo un periodo di completa deregolamentazione hanno tentato di introdurre delle regole, con la “Wall Street Reform” del 2010 e con il “Consumer Protection Act”, ma una forte azione di lobbying del settore finanziario e della maggioranza repubblicana nel Congresso sta rendendo difficile adottare di fatto questi provvedimenti. La Commissione Europea e in particolare il Commissario per i Mercati Interni Michel Barnier sta portando avanti la riforma del MiFID che prevede una stretta sull’uso improprio degli strumenti finanziari derivati, in questo modo si dovrebbe rendere più difficile anche la speculazione sui mercati dei prodotti agricoli. E’ una battaglia molto importante che andrà sviluppata e sostenuta nei prossimi mesi assicurandosi che questo dibattito sia aperto, trasparente e democratico.

Quale ruolo possono avere i singoli cittadini?
Il ruolo della società civile sarà determinante. Uno dei problemi che abbiamo visto negli anni passati, in Europa e negli Stati Uniti, è che il dibattito è stato monopolizzato da un numero ristretto di esperti fortemente legati al settore finanziario, che di fatto finora sono stati gli unici ad avere accesso ai parlamentari e ai legislatori. Quello della speculazione alimentare è un problema però che riguarda tutti, che tocca un bene primario come il cibo. È essenziale colmare un deficit informativo e far sì che quello della speculazione sui beni alimentari diventi un problema dibattuto in un forum aperto, accessibile all’opinione pubblica. È indispensabile che ci sia più informazione in modo che i cittadini possano prendere una posizione. Per questo la mobilitazione dell’opinione pubblica, con campagne e iniziative di advocacy, sarà decisiva.

Quali misure potrebbero frenare la speculazione?
Il G20 ha raccomandato di studiare la possibilità di imporre limiti di posizione agli attori finanziari, in pratica si tratta di far sì che un determinato operatore non possa detenere più di un certo numero di derivati o futures. Questo impedirebbe agli speculatori di manipolare i prezzi con la promessa di comprare vaste quantità di certi prodotti come farina o mais influenzando il prezzo delle commodities semplicemente mettendo in campo il proprio peso finanziario. Per spiegare cosa intendo faccio un esempio: nel luglio 2010, un unico fondo di investimento con base a Londra, Armajaro, ha conquistato il mercato del cacao comprando il 7% della produzione globale annuale in un momento in cui i prezzi del cacao stavano raggiungendo il picco più alto degli ultimi 32 anni: questi operatori hanno messo un miliardo di dollari sul tavolo, nella speranza di creare il panico e che i prezzi crescessero ulteriormente, il che avrebbe permesso loro di ottenere un enorme profitto. Sebbene l’operazione sia poi fallita – i raccolti erano buoni e i mercati non sono andati in panico – questo caso mette in evidenza il pericolo della situazione presente. Alcune misure devono e possono essere prese per affrontare la speculazione.

Come si fa a sapere quanto cibo c’è a disposizione in un determinato periodo se la speculazione crea bolle e gonfia i prezzi?
Più trasparenza sulle scorte alimentari potrebbe aiutare. Bisognerebbe obbligare sia i governi che gli operatori privati a fornire informazioni sulla produzione reale e sulle scorte effettive dei prodotti agricoli. Ciò consentirebbe di ridurre l’incertezza sui mercati, perché la speculazione è alimentata dall’insicurezza, da una nebulosità che favorisce le scommesse da parte degli operatori di borsa sui prezzi futuri, in un contesto dove l’evoluzione di questi prezzi dipende da molte variabili. Fornendo una migliore informazione sulle scorte e sul livello della produzione sarà possibile ridurre la “nevrosi” del mercati e rendere la speculazione meno attraente.

I governi non dovrebbero garantire la sicurezza alimentare delle proprie popolazioni? Che ruolo possono avere?
Sia a livello nazionale che regionale, la speculazione dovrebbe essere affrontata non semplicemente attraverso un’adeguata supervisione dei mercati finanziari, cosa che la Commissione europea ora sta cercando di fare, ma anche attraverso un uso adeguato delle riserve di cibo. Se i governi mettessero a punto sistemi di regolazione, per esempio comprando quando i prezzi sono bassi – supportando così la stabilità degli introiti dei contadini – e aprendo gli stocks quando i prezzi sono alti per alleviare il peso delle economie famigliari delle fasce più povere, questo potrebbe avere un impatto importante nel ridurre la volatilità dei prezzi. Nel passato le riserve alimentari non sono state sempre ben amministrate, e spesso sono diventate occasione di corruzione e favoritismi politici. Ma se gestite in modo trasparente con appropriati meccanismi di controllo, possono funzionare.

Oggi è possibile speculare sul cibo senza far parte in alcun modo del mercato agricolo. Come evitare che mais, grano e riso sono diventino merci qualsiasi, o addirittura solo un’occasione per solo per fare giochi d’azzardo?
Una delle proposte in campo è favorire la distinzione tra gli imprenditori commerciali che vendono tonnellate di riso, mais, farina perché attori reali di questo mercato dagli operatori finanziari che speculano sulle future evoluzioni dei prezzi solo per ottenere guadagni a breve termine. I prodotti finanziari derivati, come i futures, non sono infatti un male assoluto. Per anni hanno svolto una funzione positiva consentendo ai produttori e agli operatori commerciali di mettersi al riparo dal rischio. Il problema è nato con la deregolamentazione dei mercati finanziari che ha favorito un peso crescente degli speculatori. Per questo è necessario distinguere in modo più chiaro gli attori finanziari, gli hedge fund, i fondi pensione, dagli operatori commerciali e produttori che fanno parte del mercato reale delle commodities.

Se la speculazione è un fenomeno globale non dovrebbe essere affrontato nell’ambito delle Nazioni Unite?
L’azione del G20 e dell’Onu devono sostenersi a vicenda, e andare avanti parallelamente agli interventi regionali, come quello di Barnier per quanto riguarda l’Unione europea. A Roma c’è il Comitato sulla sicurezza alimentare, che è un’assemblea inclusiva di governi, agenzie internazionali e organizzazioni della società civile che si riunisce per coordinare le azioni contro la fame: potrebbe prendere una posizione e incoraggiare i governi ad agire. Ma bisogna fare in fretta. Il G20 dovrebbe agire, e le Nazioni Unite dovrebbero rafforzare quest’azione e confermarla in assemblee che sono più inclusive di tutti gli interessi. Non dimentichiamo chi sono le vittime della speculazione: i Paesi più poveri, che devono importare il cibo per poter soddisfare i loro bisogni, e la cui spesa per il cibo è quintuplicata o sestuplicata dal 1992 ad oggi.

Un rapporto di Oxfam dice che il prezzo del cibo potrebbe duplicare da qui al 2030. Pensa che sia una previsione realistica?
I cambiamenti climatici stanno già causando piogge meno prevedibili e siccità e alluvioni che sono più severe e frequenti rispetto al passato. La produzione di cibo dipende molto anche dai prezzi delle energie fossili, come il petrolio e il gas, che cresceranno e saranno più volatili nel futuro. In più la speculazione sta facendo aumentare ulteriormente la volatilità dei prezzi. Perciò per il futuro è ragionevole temere prezzi dei beni alimentari più alti e più instabili sui mercati internazionali. C’è da dire però che le cinture di trasmissione sui mercati locali – dove di fatto le persone acquistano il cibo – variano in modo significativo da Paese a Paese, a seconda delle politiche messe in atto dai singoli Stati negli ambiti agricolo e commerciale, e naturalmente i consumatori sono colpiti nella misura in cui sono poveri e non sono supportati da adeguati ammortizzatori sociali. I prezzi cresceranno, e le popolazioni che saranno colpite saranno quelle che vivono nei Paesi poveri fortemente dipendenti dalle importazioni di cibo per poter nutrirsi, Paesi che non possono supportare i propri cittadini e che nel passato hanno investito troppo poco per sostenere la produttività agricola.

Cosa si può fare per fermare questa ascesa dei prezzi dei beni alimentari?
Dobbiamo re-investire nell’agricoltura, in modo da creare tipi più resilienti di prodotti, dirigendoci verso forme sostenibili di agricoltura che rendano i mercati alimentari meno dipendenti dai mercati dell’energia. Nello stesso tempo, dobbiamo agire sui fondamentali: non solo incrementando la produzione, ma anche riducendo lo spreco. Un terzo delle risorse alimentari commestibili prodotte per il consumo umano va perso o viene buttato, per un equivalente di 1,3 miliardi di tonnellate l’anno. Nei Paesi ricchi più del 40% del raccolto viene sciupato perché immagazzinato o trasportato male, e a questo si aggiunge il fatto che e perché sprechiamo enormi quantità di cibo. L’ultimo anello della catena, ovvero i consumatori, sprecano 222 milioni di tonnellate l’anno ed è quasi quanto la produzione netta di cibo nell’Africa sub sahariana (230 milioni di tonnellate).

Secondo la Fao bisogna aumentare la produttività di cibo. È il solo modo per garantire la sicurezza alimentare?
Incrementare la produttività servirà ad affrontare il problema della fame e della malnutrizione se questi obiettivi saranno raggiunti nelle regioni più povere, e se beneficeranno i contadini più vulnerabili. Perché la fame non è solo una questione di sufficiente disponibilità di cibo: ci sono persone troppo povere per nutrirsi, e la maggior parte di loro sono piccoli agricoltori che non sono stati sostenuti in passato. Incrementare la produzione per garantire che l’offerta di cibo sia maggiore non basta. Bisogna affrontare la questione anche dal punto di vista della domanda.

Ci fa un esempio?
Circa la metà della produzione mondiale dei cereali è usata peri mangimi animali e si prevede che il consumo di carme cresca dai 37,4 Kg per persona all’anno nel 2000 a più di 52 kg per persona all’anno nel 2050, così che, a metà del prossimo secolo, il 50% della produzione totale dei cereali potrebbe essere destinata a incrementare la produzione di carne. Reindirizzare i cereali usati per i mangimi animali verso il consumo umano è un’opzione fortemente auspicabile nei Paesi “sviluppati” dove l’eccesso di consumo di proteine animali è fonte di problemi di salute pubblica, e in questo modo si potrebbe a lungo termine soddisfare i bisogni alimentari crescenti a livello globale. Il Programma ambientale delle Nazioni Unite stima che, anche calcolando il valore energetico della carne prodotta, la perdita di calorie che risulta dal destinare i cereali ai mangimi animali invece che usarli direttamente per l’alimentazione umana rappresenta il fabbisogno calorico annuale di 3.5 miliardi di persone. In poche parole si potrebbero sfamare 3.5 miliardi di persone in più all’anno cambiando il nostro modo di alimentarci.

C’è chi sostiene che debba essere messa in discussione anche la politica energetica che si basa sui biocarburanti, cosa ne pensa?
Bisogna senz’altro affrontare il problema. Come la maggior parte delle economie sviluppate, l’Unione europea ha deciso di incoraggiare la produzione di biocarburanti, sussidiando il settore con incentivi fiscali e fissando l’obiettivo entro il 2020 del 10 per cento di energie rinnovabili per i trasporti, che deve essere raggiungo contando sui biofuels. Questo obiettivo ha un impatto significativo sui mercati alimentari, sta facendo crescere la tensione fra l’offerta e la domanda, e si sta già traducendo in una crescente pressione per l’acquisizione di terre e risorse idriche nei Paesi in via di sviluppo.

Il fenomeno del “land grabbing”, l’affitto di enormi appezzamenti di terra da parte di governi o multinazionali riguarda soprattutto l’Africa. Pensa che questo continente abbia la capacità di proteggersi da una nuova crisi alimentare?
245 milioni di persone nell’Africa sub sahariana sono affamate perché sono troppo povere. La stragrande maggioranza vive nelle aree rurali, vittima di mancati investimenti nell’agricoltura. I più vulnerabili sono i Paesi importatori netti di alimenti, perché hanno costruito un’economia bastata sull’export-import piuttosto che incentivare l’agricoltura per venire incontro ai bisogni locali. Questi Paesi sono stati costretti a farlo per ripagare il debito estero e perché incoraggiati a perpetuare schemi coloniali secondo i quali fornivano materie prime per poi dover acquistare il prodotto finito, incluso il cibo lavorato. Ora questo schema deve cambiare, e sta di fatto cambiando.

Nei supermercati africani si trova più spesso cibo importato che locale. Perché?
Questi Paesi devono essere aiutati a rafforzare i loro settori agricoli investendo in impianti per immagazzinare e in infrastrutture, a supportare i propri contadini attraverso servizi estesi, a incoraggiare i piccoli produttori agricoli a formare cooperative per raggiungere standard di economia di scala nel lavorare, confezionare e commerciare il cibo. I governi africani dovrebbero da parte loro supportare l’accesso da parte di consumatori urbani al cibo in modo che si possano permettere una nutrizione di qualità, sia mettendo a punto ammortizzatori sociali che connettendo i produttori locali ai vicini mercati urbani. Questa transizione richiederà tempo e investimenti. E può darsi che, sebbene sia l’unico modo per soddisfare i bisogni di questi Paesi a lungo termine, possa entrare in conflitto con l’interesse a breve termine che li spinge a continuare a contare su importazioni di cibo a basso prezzo, anche se è a discapito del loro settore agricolo. Ma questa transizione è assolutamente necessaria, e i Paesi africani dovrebbero essere aiutati a fare in modo che abbia un esito positivo.

Negli ultimi anni sono sorte diverse campagne per il diritto al cibo nei Paesi europei ma anche in Africa attraverso le reti di agricoltori. Pensa che possano giocare un ruolo importante in questa partita?
La mobilitazione della società civile è essenziale. I governi si muoveranno in modo deciso solo quando capiranno che c’è una grande aspettativa nei loro confronti e quando dovranno rendere conto davvero delle loro iniziative. Non sono un assertore dell’aiuto internazionale come la panacea di tutti i mali, ma bisogna dire che negli Usa si sono spesi 700 miliardi di dollari per tirare fuori dai guai le banche alla fine del 2008 e nel 2009 l’American Recovery and Reinvestment Act ha messo in campo l’equivalente di 787 miliardi in stimoli fiscali. Se si pensa che basterebbero 45 miliardi di dollari in 5 anni per invertire la rotta dopo tre decenni di disinvestimento in agricoltura nei Paesi in via di sviluppo, il paragone stride. La questione non è che i soldi non possono essere trovati. È che ancora manca la volontà di rendere la fame un retaggio del passato. In questo momento però c’è più buona volontà da parte di governi rispetto al passato. Ma la pressione che subiscono non è ancora sufficiente.

(di Emanuela Citterio)